APPLICAZIONI DELL'IMMUNO-COMET ASSAY IN CAMPO OCCUPAZIONALE
M. E. Fracasso-Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Sez. Farmacologia, Università di Verona D. Doria-Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Sez. Farmacologia, Università di Verona E. De Rosa-Dipartimento di Medicina del Lavoro, Università di Ferrara G. B. Bartolucci-Dipartimento di Medicina del Lavoro e Sanità Pubblica, Università di Padova M. Carrieri-Dipartimento di Medicina del Lavoro e Sanità Pubblica, Università di Padova M. Manno-Dipartimento di Scienze Mediche Preventive, Sez Medicina del Lavoro, Università di Napoli "Federico II"
Le ricerche per la messa a punto di tecniche biochimiche in grado di evidenziare la presenza di rotture sulla catena del DNA di cellule eucariotiche sono in continuo sviluppo e vengono sempre più spesso utilizzate in studi di tossicologia e di cancerogenesi. Attualmente c'è un crescente interesse nella ricerca di markers biologici che possono fornire indicazioni, anche a scopo preventivo, sui danni al materiale genetico indotti da diversi agenti chimici (ambientali, professionali, trattamenti chemioterapici ecc.) o in sindromi con difetti riparativi al DNA. Gli indicatori biologici possono essere disponibili nelle diverse fasi tossicocinetiche (esposizione, assorbimento,metabolismo, distribuzione, interazioni con target critici come processi di danno e di riparazione al DNA), e nelle mutazioni genetiche. Diverse tecniche sono state sviluppate nel rilevamento di danni genetici in diverse condizioni lavorative ed ambientali. In corrispondenza ai biomarcatori di effetto come micronuclei, SCE, AC ecc. sono stati messi a punto anche biomarcatori di esposizione come la ricerca di metaboliti urinari, la valutazione di addotti al DNA ecc. In questi ultimi anni un particolare interesse si è indirizzato ad una nuova tecnica che evidenzia in singole cellule danni al DNA sia nel singolo che nel doppio filamento. Questa tecnica detta single cell gel electrophoresis (SCGE) o comet test si è rivelata particolarmente duttile e presenta diversi vantaggi come: a) buona sensibilità nel riconoscere anche bassi livelli di danno, b) richiede un esiguo numero di cellule, c) è di semplice esecuzione e le risposte si possono ottenere in pochi giorni. Attualmente il metodo è stato validato ed impiegato per valutare danni e processi riparativi del DNA nel monitoraggio biologico di esposizione e in tossicologia genetica. La valutazione di danni al DNA in linfociti tramite comet assay, quindi, è probabilmente uno dei metodi che meglio si adatta come marker di esposizione. Gli eventuali danni riscontrati rappresentano uno stato di steady-state tra induzione del danno ed il suo riparo. D'altra parte un'aumentata incidenza di danno indotta da un processo espositivo può alterare questo equilibrio. Come marker di esposizione questo test riflette esposizioni relativamente recenti, ma se il danno non viene riparato correttamente si può verificare un effetto cumulativo. La versione alcalina del test rivela diversi tipi di danno, come rotture di singolo e/o doppio filamento, danni ossidativi, siti alcali labili, cross-link DNA-DNA, DNA-proteine e processi riparativi, praticamente in tutti i tipi di cellule eucariote. La versione neutra del comet test, per la ricerca di danni in doppia elica del DNA (DSB), è complicata dal fatto che questi danni sono meno frequenti rispetto i danni in singolo filamento (SSB), quindi necessita di ulteriori conferme per essere impiegata come biomarcatore predittivo di rischio e, in questo senso, diversi studi sono attualmente in corso per la sua validazione. Recentemente, alcuni ricercatori hanno utilizzato anticorpi specifici anti DNA-SSB per dimostrare indirettamente la presenza di danni DSB: infatti cellule provenienti dalla classica procedura della versione neutra del comet test non mostravano alcun segnale di fluorescenza, confermando così l’assenza di SSB. In base a queste osservazioni, nel nostro laboratorio è stata messa a punto una tecnica innovativa che, utilizzando questo anticorpo ma dopo opportuni trattamenti, identifica direttamente la presenza e la frequenza con cui si verificano rotture nella doppia elica del DNA, aumentando così le informazioni sul profilo di rischio individuale. Questa nuova tecnica è stata applicata in linfociti di soggetti provenienti da diverse realtà occupazionali considerate a rischi genotossico (benzene, stirene, asbesto). I dati ottenuti confermano la validità del metodo nell’identificare ambedue i tipi di danno al DNA linfocitario. Lavoro supportato parzialmente da: MIUR-PRIN 2006, n. 2006068922_003